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UN CUORE IN INVERNO
(UN COEUR EN HIVER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 settembre 1992
 
di Claude Sautet, con Daniel Auteuil, Emmanuelle Béart, André Dussolier (Francia, 1992)
 

È la storia di un trio; ma non del solito triangolo. È la storia di un trio che ha a che fare con la musica; e non di un triangolo d'avanspettacolo. Il cinema di Sautet, nobile e generoso, vale già per questa sua situazione: in quella valle di lacrime (e violenza, e sesso e, soprattutto, calcolo) che è ormai quella del cinema contemporaneo. Inizia, infatti, sulle note del Trio di Ravel (che imprimerà al film i suoi rinvii particolari), racconta di un triangolo amoroso, ed è centrato su di un liutaio (Daniel Auteuil), personaggio insolito nel panorama cinematografico.

Ripensandoci, mi rendo conto che Stéphane ha qualcosa di raveliano. Ravel era un compositore molto misterioso, che viveva solo per la musica; e che non ha avuto, che io sappia, alcuna esperienza sentimentale. È un personaggio che è uscito però dalla fantasia di uno scrittore russo del primo ottocento, Lermontov. In uno dei suoi racconti ("La Principessa Maria", da "Un eroe del nostro tempo") racconta di due amici ufficiali. Un giorno uno si vanta con l'altro di aver sedotto una certa principessa: intrigato da quella notizia l'altro si mette in testa di sedurla a sua volta. E ci riesce: ma, all'ultimo momento, si tira indietro. Questo personaggio ambiguo, che fa innamorare di sé una donna per il piacere quasi perverso di dirle di no, mi ha colpito. Nel film, ambientato a Parigi e nei tempi nostri, il personaggio è naturalmente meno negativo: ai tempi del romanticismo potevano esistere personaggi tutti di un pezzo. Nella realtà le cose sono più sfumate, è difficile negare totalmente il sentimento, anche in una scommessa di quel tipo. Il mio protagonista non è un cinico, è un malato... I due uomini sono colleghi, il primo costruisce violini, il secondo li vende. Al di là della cortesia di routine, tra i due non c'è più una vera amicizia, è come se non si aspettassero più niente uno dall'altro. Senza una strategia preordinata, così per gioco, per curiosità, per vanità, il liutaio Stéphane fa innamorare di sé Camille, l'affascinante, serissima e bravissima violinista, che vive con Maxime da poche settimane. Le perfeziona lo strumento, va ad ascoltarla alle prove, e sparisce al momento buono per farsi desiderare. Per lui è una creatura di sogno, legata alla musica, affascinante ed irraggiungibile, come l'amore.

Ma lei, tutte queste complicazioni, le ignora, crede che lui sfugga per timidezza, ha l'impressione di aver scoperto in lui qualcosa che vuol nascondere, e tenta di sbloccarlo dentro, ma ne rimarrà scottata... Lei gli si dichiara dopo aver interpretato un movimento particolarmente agitato, il Perpetuum Mobile della Sonata per violino e pianoforte. È grazie a questa tensione che lei trova la forza di aprirsi totalmente a Stéphane, per esserne immediatamente respinta."

Così Claude Sautet, che molti si ostinano a considerare il regista di quella riduttiva "qualità alla francese" tanto disdegnata ai tempi dei falchetti della Nouvelle Vague. Il pittore delle delizie borghesi dei Montand e delle Schneider in LES CHOSES DE LA VIE o in CESAR ET ROSALIE ha sempre riscosso, al contrario , tutta l'ammirazione dei Truffaut, dei Resnais ed anche dei più scorbutici come Pialat. Probabilmente perché Sautet è un artigiano, nel senso più nobile della parola. Un artigiano al quale qui riesce uno dei suoi oggetti più squisiti. Nel suo film più trattenuto, più epurato, egli gira infatti la storia di un liutaio che fa innamorare di sé una violinista. L'incontro, cioè, fra due professioni: quello di due esseri che nel rifugio del loro mestiere - così ferocemente, appassionatamente e talentuosamente eseguito da volgersi in arte - celano i segreti del proprio intimo. Possono esseri i segreti del proprio equilibrio: come nel caso della serena , bellissima violinista che devierà solo per un attimo, ferita ma non sconfitta dall'esperienza vissuta. Oppure le turbe dei propri limiti, se non della propria perversione: ed è il caso del liutaio incapace di amare.

Sono come due costanti di una parabola destinata a non incontrarsi mai: una luminosa, soave, inscalfibile. L'altra oscura, ambigua ed indefinibile. Sautet non concede nulla (altro che cinema borghese...): non chiede alla spettatore un'impossibile identificazione, un briciolo di simpatia. Ma non gli concede nemmeno la consolazione, la tranquillità di uno schemino di situazione, non diciamo di una parvenza di happy end. La fusione tra i sentimenti e la musica, la presa di coscienza progressiva degli attori mutevolissimo, nella propria indefinizione Daniel Auteuil; trattenuta, trasparente, al tempo stesso vulnerabile e sensuale Emmanuelle Béart, per la prima volta grande attrice, dopo la rivelazione di LA BELLE NOISEUSE, nella quale si limitava però a presenziare; equilibratissimo André Dussolier) fanno di UN COEUR EN HIVER un'opera condotta in porto senza alcuna concessione, con una logica inappuntabile, che guida la tensione talvolta insostenibile dei sentimenti.

Cinema della facilità passeista, di un classicismo di qualità che liscia il pelo allo spettatore? Tutto il contrario: il coraggio di Sautet è proprio quello di rifiutare lo psicologismo, di sostituire al tentativo di spiegazione l'irresoluzione dei sentimenti. Descrivere un personaggio - ostico, più che degno della comprensione dello spettatore - nel quale la morte al lavoro ha già intrapreso gran parte della propria missione: quella di uccidere, oltre alla vitalità, il desiderio.


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